Nel
Duecento, uno dei bisogni più elementari e fondamentali delle città,
l'approvvigionamento idrico, si fa sempre più stringente a causa delle
accresciute esigenze della popolazione e della manifattura in sviluppo. Quindi
le risposte a nuova tale esigenza si fanno sempre più sofisticate; acquedotti,
fonti, cisterne, pozzi, canalizzazioni etc. scandiscono e talvolta trasformano
lo spazio urbano, costringendo governi e cittadini comuni a confrontarsi sul
tema delle acque e a profondere in esso energie politiche, scelte tecniche e
risorse finanziarie.
Ci sono città che dispongono di acqua in quantità e, perciò, non hanno
bisogno di particolari interventi di adeguamento degli acquedotti più antichi.
Firenze è il caso più tipico: l'acqua dell'Arno sopperisce alla necessità
della città la quale, per parte sua, per lungo tempo non ha bisogno di altra
struttura rispetto all'acquedotto romano del I secolo d.C. Pisa, addirittura, è
a tal punto ben servita dal corso d'acqua che l'attraversa, da non curarsi più
di tanto della rovina dell'acquedotto romano, le cui vestigia sopravviveranno
fino al XVI secolo. Ma per altre città dell'interno, Siena per esempio e
soprattutto per quelle che sorgono su un terreno arido, il problema
dell'approvvigionamento di acqua è uno dei banchi di prova per l'intera
collettività. Siena, per tutto l'alto Medioevo, fa fronte alle sue necessità
tramite una serie di condotti sotterranei molto simili, probabilmente, a
quell'acquedotto sotterraneo romano che anche qui, come altrove, era andato
perduto. Sono questi condotti che alimentano le più antiche fonti cittadine,
tutte poste alla base della collina dove sorge l'antico nucleo cittadino; ma
quando la città si espande, né i vecchi condotti né la rete delle fonti sono
più sufficienti. Così nel corso del Duecento, il comune procede a scavare
nuovi tratti di " bottino"
(come si chiamano questi condotti con la volta scavata nell'arenaria a forma di
botte) per raccogliere tutte le possibili acque di stillicidio ed alimentare così
le nuove fonti che stanno sorgendo intorno all'abitato.
"A Siena si
chiamarono e si chiamano ancora, bottini, gli acquedotti sotterranei, scavati
nel tufo, in parte anche murati, quasi tutti praticabili, che dopo aver raccolto
le infiltrazioni delle acque piovane e delle vene, nelle colline circostanti,
alimentano, con queste acque, le fontane pubbliche e moltissimi pozzi
privati..." (Le fonti di Siena e i loro
acquedotti-Fabio Bargagli-Petrucci).
Si trova citato nei documenti il termine "Buctinus" per la
prima volta nel 1226 e si riferisce al fatto che la volta di queste gallerie
sotterranee era a "botte" (solo il bottino di Fontanella ha la volta
"a capanna"). Si riconoscono due metodi di scavo del cunicolo: nel
caso del bottino di Fontebranda, più antico, si scavava attaccando da una sola
parte, cioè dalla fonte, risalendo, lievemente tenendosi sempre tra i due
strati geologici che formano le colline senesi: uno superiore a sabbia gialla
(arenaria pliocenica), porosa e permeabile, che filtra l'acqua piovana e
l'altro, sotto, di argilla, compatta ed impermeabile che la raccoglie. L'acqua
raccolta scorreva sul fondo della galleria in un canaletto (Gorello) sopra docci
di terracotta fino a giungere abbondante alla fonte.
Per il bottino di Fonte Gaia invece, si iniziò lo scavo da due punti: Fonte
Gaia e S. Petronilla, nella stessa direzione, convergendo nel punto mediale, ed
anche, sempre da S. Petronilla, a Nord verso Fonte Becci. Questo metodo era più
veloce ma anche più difficile perché poteva capitare che le due gallerie non
si ricongiungessero in quanto‚ passanti su piani diversi. Questo si nota in
alcuni tratti dove i bottini sono
più larghi o hanno la volta molto più in alto del normale. Proprio per
mantenere una certa direzione, in assenza di strumenti adeguati, ogni tanto si
scavava in alto fino a sbucare all'aperto e questi pozzi, detti anche occhi o
smiragli, servivano anche per areare le gallerie e permettere il trasporto in
superficie dei detriti e dei materiali di risulta.
Il lavoro nei bottini era abbastanza lento, perché nella galleria poteva
lavorare un solo uomo per volta. Si scavava utilizzando attrezzi rudimentali,
quali zapponi, picconi da tufo (con una punta sola) o da sasso con due punte,
pale e palette, paletti di ferro, succhielli, mazzapicchio per pietroni e
scalpelli, ed ancora uncini per togliere il deposito calcareo (gruma) dal
gorello (operazione detta di "sgrumatura"). Inoltre veniva usato
l'archipendolo, uno strumento fatto come una "A" con un filo centrale
piombato che serviva per stabilire la pendenza che, spesso, era mantenuta
costante con una angolazione quasi impercettibile dell'uno per mille, così che
l'acqua, nel suo lento scorrere, potesse anche depositare impurità o calcare.
Se il dislivello da coprire era maggiore, si ricorreva all'artifizio delle curve
a serpentina: esse avevano la funzione di rallentare la velocità dell'acqua
estendendone il percorso per mantenerne inalterata la pendenza.
Per
illuminare le tenebre il comune forniva candele di sego e talvolta lanterne.Dopo
che un abbozzo di galleria era stato scavato, si provvedeva ad ampliarla e
contemporaneamente a rinforzarla con archi, transetti e spesso spalline di
laterizio per evitare frane e cedimenti. Quindi dietro ai minatori lavoravano
anche
carpentieri e molte altre persone, come i vetturali, cioè gli addetti al
trasporto dei materiali (nuovi e di risulta) e gli addetti ai rifornimenti
alimentari, perché ci si accorse che il Comune avrebbe risparmiato tempo se
avesse provveduto a portare il cibo sottoterra, anziché far uscire i lavoratori
per la pausa pranzo. Questi avevano varie qualifiche: i manovali erano reclutati
e pagati giorno per giorno ed erano precari. I maestri, gente più esperta,
avevano un rapporto di impiego più duraturo e guadagnavano il doppio di un
manovale, che a sua volta guadagnava il doppio di una donna. La paga comprendeva
sempre anche un pasto: pane, vino, melone e, talvolta carne.
C'erano anche operai specializzati reclutati tra i minatori delle colline
metallifere (Massa Marittima, Gerfalco, Montieri, Boccheggiano) che avevano un
ingaggio duraturo e sicuro. Questi minatori erano chiamati "GUERCHI",
nome di derivazione tedesca (la spiegazione popolare vuole che fossero chiamati
così perché, lavorando per mesi sottoterra, quando rivedevano la luce del sole
ne venivano abbagliati tanto da restare privi della vista (guerci). Inoltre la
vita sotterranea, oltre ad essere pericolosa e malsana, creava anche paure
diffuse, causate soprattutto dal buio e dall'ignoranza: si riteneva che vi
abitassero animali fantastici come il Fuggisole, capace di avvelenare, o demoni
malvagi che potevano, con il loro fiato, intossicare i lavoratori (la
spiegazione può ritrovarsi nelle frequenti fuoriuscite di gas naturale). Ci si
immaginava anche la presenza di nani, somiglianti a vecchiettini, che però non
infastidivano gli uomini ma anzi li rallegravano (i lavoratori bevevano molto
vino, che veniva loro elargito per corroborare il fisico e allontanare dalla
mente paure e incubi, anche se poi, verosimilmente, era proprio l'alcool a
causarli).
A
conti fatti, nonostante le condizioni poco umane dei lavoratori, il pericolo di
crolli o di incidenti sul lavoro, si contavano pochissimi infortuni e ancor meno
casi di morte, nonostante nei bottini abbiano lavorato migliaia di persone per
centinaia di anni.
I rami principali dei bottini sono due, situati su due livelli diversi: il
bottino maestro di Fontebranda, che da Fontebecci e dal ramo di Chiarenna (zona
nord di Siena) porta l'acqua a Fontebranda e scorre a profondità notevoli, e
quello maestro di Fonte Gaia, più recente ma più lungo, che alimenta, col
trabocco della Fonte del Campo, anche altre fonti poste ad altitudini minori
(Casato, Pantaneto, S.Maurizio, S. Giusto).
Il ramo maestro di Fonte Gaia giunge fino a Fontebecci dove si divide in due
rami che provengono uno dal Colombaio e l'altro da Uopini e da S. Dalmazio.
Per far arrivare l'acqua in Piazza del Campo, a 320 m di altezza sul livello del
mare, era necessario andare a cercarla più in alto e quindi soltanto a Nord,
lungo il crinale che da Porta Camollia arriva a Fontebecci e oltre, unica
direzione questa che non fosse interrotta da profonde vallate come succede
invece a Est, Ovest e Sud di Siena. E proprio a nord, in aperta campagna, i due
bottini maestri raccoglievano gran copia d'acqua che filtrava dai campi
soprastanti; questo però costrinse a rivestire le gallerie con mattoni per
evitare che l'arenaria, inumidita, crollasse ostruendo il gorello. Anche i
mattoni però venivano murati con criterio, lasciando degli spiragli che
facessero filtrare ugualmente l'acqua dalle pareti e dalla volta.
Questo
rivestimento in mattoni è spesso assente sotto la città in quanto le
costruzioni e le strade lastricate evitano le infiltrazioni di acqua e con
l'arenaria più asciutta è minore il pericolo di crolli. Proprio per evitare
pericoli del genere e anche altri guai causati dall'incuria dei proprietari dei
terreni sovrastanti il bottino o gli smiragli, il Comune aveva emanato una serie
di leggi molto severe che vietavano la circolazione agli estranei nei bottini;
vietavano inoltre le colture e la concimazione nella striscia di terra sotto cui
passava il canale (per evitare che le radici lo rovinassero e che l'acqua si
sporcasse), di prelevare l'acqua per uso privato nel corso del bottino, ecc.
Soprattutto la paura che chi entrava potesse scorrazzare tranquillamente sotto
la città, portò nel 1467 alla decisione di chiudere vari ingressi posti fuori
dalle mura. Non a caso infatti ci furono vari tentativi da parte dei nemici di
penetrare nella città attraverso i suoi acquedotti: il caso più famoso è
quello del 1526, quando Papa Clemente VII favorì una congiura per rovesciare il
governo senese e trovò un alleato in Lucio Aringhieri che promise di far
entrare segretamente in Siena le truppe nemiche attraverso i bottini. La
congiura fallì perché un falegname, al quale erano state chieste delle scale,
si insospettì e avvertì i governanti. Anche durante l'assedio del 1553 i
bottini furono sbarrati, cercando però di non interrompere la portata di acqua.
Per quanto riguarda la situazione attuale, abbiamo una rete di bottini
perfettamente funzionanti nella loro parte terminale, cioè in prossimità della
città, in quanto anche se qualche tratto è completamente rivestito di calcare
(Fontanella), l'acqua arriva alle fonti nella dovuta quantità e molta se ne
perde non essendo utilizzata. Per questo il comune ha consentito che vi
continuassero ad esserci varie utenze lungo il percorso, come il Campo scuola,
il centro elettronico del Monte dei Paschi, il laboratorio Nannini Conca d'Oro,
lo stadio, etc. Per quanto riguarda la zona a nord della città (soprattutto
nelle località di Uopini, Mazzafonda, S.Dalmazio e Peragna), a causa di
continue infiltrazioni, della penetrazione di radici della vegetazione
sovrastante, dell'incuria e dell'accumulo di calcare e fango nel gorello con la
sua relativa ostruzione e allagamento dell'intero camminamento, si sono
verificate e si verificano piccole frane che, unitamente al danno fatto da chi
ha gettato detriti dai cosiddetti "occhi",
rendono la situazione poco rassicurante.
I
bottini, senza interventi adeguati, rischiano di interrarsi e di ricoprirsi e
questo è già successo in alcuni rami divenuti ormai impraticabili. Molti
tratti avrebbero soltanto bisogno di piccoli interventi di ordinaria
manutenzione che, fino a tutto il 1994, erano quasi impossibili perché‚ gli
addetti del comune (i cosiddetti bottinieri) erano solo due e dovevano fare anche da guida
turistica nelle visite sotterranee.
Fu sotto il Governo dei Nove (dalla fine del XIII secolo a tutta la prima metà
del XIV) che Siena cambiò la propria immagine: alla pietra grigia si sostituì
il laterizio con la sua connotazione cromatica rossa. Fu costruito il Palazzo
Pubblico, la Torre del Mangia e fu sistemato il Campo; le strade principali
vennero selciate o mattonate, si assistette all'ampliamento della cinta muraria
e al tentativo di costruire la cattedrale più grande di tutta la cristianità.
Nel 1334 venne affidato a Jacopo di Vanni l'incarico di far giungere in città
l'acqua delle vene a nord e questa, già nel 1343, arrivava in Piazza del Campo,
il centro della vita della città. Nel 1343 il bottino giungeva a Fontebecci e
si cercava di allacciarlo all' acqua del fiume Staggia verso Quercegrossa.
Nel 1387 veniva portato a termine il ramo di Uopini e si tentava di incanalare
l'acqua di Mazzafonda nel bottino di Fontebranda.
Nel 1437 si lavorava al ramo di Marciano.
Nel 1438 si costruivano, sotto il prato di Camollia, i galazzoni, una serie di
vasche in cui l'acqua, che procedeva molto lentamente, decantava liberandosi
delle impurità e dell'eccesso di calcare.
Nel 1466, anche se si continuava a cercare altre vene, si ebbe la massima
estensione, dei bottini, con 25 chilometri complessivi di gallerie. Dopo questa
data si eseguirono solo lavori di manutenzione e consolidamento.
Per tutto il periodo che va dalla resa di Siena nel 1555 fino all'entrata in
funzione dell'acquedotto del Vivo dopo la 1° guerra mondiale, Siena ha
continuato ad utilizzare i bottini come unica fonte di approvvigionamento idrico
per i vari scopi precedentemente illustrati.
Questo è stato possibile grazie allo scarso numero di abitanti (mai più di
20.000) che Siena si era ridotta ad avere dopo la peste del 1348. Inoltre la
tranquillità e la continuità politica derivante dall'inserimento nel
Granducato di Toscana permise che si badasse ai bottini con più assiduità, per
lo meno per il loro mantenimento. Così si sono preservati fino ai giorni
nostri, subendo modifiche solo nell'ottocento, quando molti privati pretesero di
allacciarsi alla rete idrica comunale tramite pozzi, che raccoglievano l'acqua
derivante dal gorello. In base a quanto pagavano ricevevano la relativa quantità
di acqua, misurata dal Comune in "dadi".
Il
dado era un forellino al centro di una piastra che sbarrava il canaletto di
derivazione e corrispondeva a circa 400
litri di acqua nelle 24 ore. Si potevano avere contratti per 1/2 dado, per
1, 2, 3 dadi e così via. Per orientarsi nel mondo sotterraneo furono fatte
delle piantine (la prima risale al 1768) e si posero delle targhe (in parte
ancora esistenti) in corrispondenza di ogni utenza privata, dove venivano
indicati con precisione il nome dell'utente, l'ubicazione esatta della sua
abitazione, la quantità dei dadi che doveva ricevere e la piccola pianta di
quel ramo di bottino. Queste utenze però corrispondenti ai pozzi dei grandi
palazzi da dove si tirava su l'acqua, servivano solo ai ricchi proprietari che
avevano le abitazioni molto vicine al percorso dei bottini maestri. Gli altri, e
soprattutto i più indigenti, continuarono per secoli a servirsi delle fontane
pubbliche.
Tutto questo fino quando non si pensò di portare a Siena le acque delle tre
sorgenti del monte Amiata. In verità c'era stato un tentativo simile già molti
anni prima , nel 1267, quando si pensò di portare in città le acque del fiume
Merse dalle sorgenti di Ciciano, a circa 30 km in linea d'aria da Siena. Il
progetto risultò improponibile soprattutto per due motivi: la difficoltà di
superare vari e continui dislivelli e, inoltre, calcolando la pendenza, la
distanza e l'altitudine di partenza, si scoprì che si sarebbe potuto portare
l'acqua solo ad una quota massima di 288 metri s.l.m. cioè al livello delle
fonti più basse, creando ulteriori disagi alla popolazione che già doveva
scendere molto in basso per poterle utilizzare.
Per queste e altre ragioni (non ultime quelle politiche) il progetto fu
abbandonato e si cercò di potenziare lo sviluppo dei bottini. L'acqua, sotto i
più svariati utilizzi è quindi sempre più di ogni altro elemento simbolo di
vita che ha condizionato intere popolazioni e su cui si è basato lo sviluppo
del genere umano.Ci auguriamo che la gente si sensibilizzi e che cominci ad
avere, nei suoi confronti, il rispetto che merita.
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